francesco maria fabrocile - Francesco Vaglica

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francesco maria fabrocile

Dalla nebulosa alla figura.

Cieli, spazi notturni, costellazioni che hanno nome e poi fattezze e forme di personaggi maschili e femminili - o viceversa figure umane proiettate su sfondi siderali sono il repertorio degli ultimi anni di ricerca artistica di Francesco Vaglica. Ma queste non sono novità tout-court per lui. La novità è che questo non nuovo repertorio si è ultimamente imposto con caratteri tali da smettere di essere appunto ‘repertorio’ e da diventare vero e proprio registro compositivo: discorso estetico autonomo, padrone di un’immensa quantità di mezzi formali.
Parliamo della pienezza totalizzante di opere come Cassiopea, Nascita di Minerva, Lo spinaro. Ma a ben vedere, parlare qui di ‘novità’ non è se non rivisitare mille variegate premesse di un percorso più che ventennale che sempre più si corona, si matura. Quindi, semplicemente: nessuna ‘novità’. Gli «itinerari cosmici di ultrafania che solo una ricchissima fantasia può inventare» , itinerari pittorici sostanziati da «miti, intrisi di quiete, [che] dominano il silenzio e la stasi»  procedono verso «il recupero di memorie individuali e collettive, biologiche e culturali» : questo è oggi il lavoro di Vaglica, così come queste erano le parole che Alessandro Piccinini, fondatore del movimento del Presenteismo, gli dedicava nel lontano 1993. Una coerenza di ricerca che dura nel tempo, dritta, tenace come una quercia.
Sin da quei primi anni Novanta, in cui Vaglica aderisce al Presenteismo, egli porta avanti il proprio discorso artistico, senza mai cedere di un solo centimetro alle tendenze e alle contingenze della figurazione: «Aderii al movimento – afferma – perché in quel periodo era quanto di più sensato si muoveva sulla scena artistica, anche se io per primo non sono mai stato ben addentro al dibattito teorico sullo spazio e sul tempo di Alessandro Piccinini e Pierre Carnac». Nonostante la sua modestia e forse ignorandola, la critica andava intanto riconoscendogli nel Presenteismo italiano un posto «al di fuori e al di sopra di molti altri giovani artisti» , di «giovane eppure già assai dotato, […] lontano da ogni accademismo» , insomma di «uno dei giovani esponenti più comunicativi e di maggiore preparazione» .
Certo è che, del dibattito artistico del Presenteismo, una è l’affermazione che filtra nelle maglie della formazione di Vaglica. E’ il principio del non riconoscersi negli –ismi delle avanguardie e delle poetiche novecentesche: del restare orgogliosamente legati al proprio presente storico pur con tutta la sua povertà, e caoticità, di proposte artistiche, per scavare sotto quella superficialità e riaffiorarne se stessi, riappropriandosi di tutte le proprie risorse creative appunto come proprie, e non come prestiti, lasciti, influenze della grande tradizione. Annientare la prospettiva storica, riappropriarsi di essa dentro la dimensione di un unico eterno presente. Una ricerca severa e solitaria che Vaglica ha caricato di tutta la responsabilità di evitare le mistificazioni artistiche correnti. E che nel 1996 il Premio Internazionale La Plejade gli riconosceva già intrapresa con pieno successo, poiché «in un periodo caratterizzato da troppe mistificazioni, la sua pittura è testimone di un’autentica arte, sempre rinnovata, ma anche legata a quei cànoni estetici della creatività umana, espressi nella storia dell’arte» .
Ma il filo rosso di ricerca artistica seguito da Vaglica non è di quelli che si colgono a prima vista. Lo ha rilevato e spiegato magistralmente Elise Desserne: «esistono artisti che propongono un dialogo riconciliatore, cercando una stessa risposta nelle due discipline [dell’astrazione e della figurazione]. Uno di questi è Francesco Vaglica» .
Né figurativo né astratto/informale, ma a cavallo di entrambi, Vaglica procede dunque in una ricerca artistica che è essenzialmente, squisitamente questo: riappropriarsi della forma (in tutte le sue codificazioni classiche, ‘presenteisticamente’ equivalenti) a partire dall’informe, dall’astratto, dal non-formale. «Da studente, all’Istituto d’Arte – racconta – mi insegnavano rigorosamente l’astratto. Nessuno spazio per la figurazione e per la ‘tradizione’, negli anni Settanta. Io, però, autonomamente, ho poi scelto di riconquistare la forma e la figura senza però disconoscere le basi della mia formazione». E la sintesi tra le due civiltà artistiche della figurazione e dell’astratto avviene attraverso tutta la gamma di stilemi pittorici che fanno essere la pittura di Vaglica se stessa. «Ho conservato, di quella mia formazione scolastica – continua Vaglica -  la sensibilità allo spazio come struttura e raccordo di forze. Ci sono dei punti nevralgici nelle mie figure che sono piccoli triangoli attraverso cui io vedo il raccordarsi delle forze in campo». Quell’«energia latente, onnipresente, concentrata in forme geometriche vivamente colorate, come una sintesi della gamma di colori usati, spesso triangolare [mette] in risalto il centro dell’azione»  e attraverso il colore mette in risalto anche, per paradosso, la trama astratta della figurazione.
Quando i soggetti delle tele sono le costellazioni, per quanto la figurazione assuma le forme del mito e della narrazione dei nomi e delle storie (dei Perseo, di Cassiopea) la trama ‘astratta’ dell’opera ci sorprende perché appunta i triangoli di energia in posizioni indiscutibili: sono le posizioni nel cielo di ogni singola stella della costellazione rappresentata. Così, l’astrazione si svela essere nientemeno che l’impalcatura dell’universo: quindi ‘realtà’ a tutti gli effetti. E il cerchio si chiude.
Uno sforzo teorico ed estetico tanto grande, un’impalacatura così totale da sorreggere sono compiti che trascendono l’umano e competono al titano, alla forza primordiale, all’Atlante: che non a caso è un tema così ricorrente nell’opera di Vaglica. Tutti i suoi temi mitologici hanno a ben vedere questo mandato espressivo: sono sintesi di tensioni opposte, di dimensioni lontanissime, e anche di codici artistici storicamente distanti. Sono spiegazioni complessive di quanto sarebbe lungo e forse impossibile significare altrimenti, perché ha a che fare con l’universo tutto intero. Il ricorso al mito, per Vaglica, non è né classicismo, né maniera, né evasione fuori tempo: è essere antico come gli antichi dinanzi al cosmo (per gli antichi il racconto mitico illustra il mondo), ma esserlo nel presente. Anche nel più minuto e quotidiano presente del nostro vivere: Nascita di Minerva porta il sottotitolo di after the beard perché ogni uomo che inizi una giornata è costretto dinanzi allo specchio della rasatura a un parto faticoso, a concepire quella giornata con la massima intelligenza di cui è capace, e a realizzarla fino a spaccarsi la testa.
Da un tema e un formato monumentale come questo a temi e formati minori, come quelli di Direzione centro o Anabbaglianti, il discorso non cambia: queste donne notturne, scurite sin sul corpo dalle tenebre e dalla paura di strade non loro, conservano nello spaesamento un’innocenza intatta che coincide con la pura bellezza formale. Sono paradigmi di bellezza: impersonano Venere. La nostra postmodernità violenta distrugge la bellezza e la prostituisce al profitto: seppur degradata, la bellezza è però ancora viva, ma soprattutto – sembra dire Vaglica – conserva intatti i suoi paradigmi formali.
In Cassiopea, opera anch’essa monumentale e coinvolgente specie per la storia che la protagonista porta con sé (è la regina etiope che entra in competizione con la propria figlia Andromeda in nome della bellezza), l’attrazione suscitata dalla figura è affidata non solo alla matericità della sua pelle e ai cromatismi vellutati e vaporosi degli sfondi, ai suoi occhi penetranti e terribilmente irresistibili. Ma anche ad un congegno recondito e intimo tutto interno alla postura della donna, quindi alla struttura della figura e all’architettura spaziale delle linee di forza. La sua posa sembra un naturale adagiarsi su un divano: ma ripete fedelmente le linee celesti della costellazione dalla nota forma di W rovesciata. Nell’incedere delle notti d’estate, la stanga esterna destra della W scivola lentamente ad aprirsi a compasso mentre la costellazione vi si inclina. Lo stesso movimento impercettibile anima la figura: è una divaricazione che si compie ovattata mentre la regina ci inchioda con lo sguardo, a riscuotere la nostra reazione. Nulla di velleitario: la sua è una sensualità cosmica, il suo atto ha la naturalità dei moti astronomici e come tale, per Vaglica, la potenza della sintesi tra astrazione e figurazione. Bastano pochi segmenti ‘astratti’ anche per sprigionare la più densa emotività.
Questa lezione l’ha fatta propria Domenico Ciociola, il più lontano, tra i discepoli di Vaglica, dalla figurazione. Perché la scomposizione della forma in lui non è scomposizione e disgregazione del sentire: Ti voglio ne è la dimostrazione più palese.
La più fedele alla figurazione del maestro, Luigina D’Onofrio, assimila da lui sia suggestioni tematiche, evidenti persino nei titoli (Luci ambigue), che le impostazioni delle figure in “sotto in su” mantegnati. Ma poi in grande autonomia riformula atmosfere e volumetrie che sembrano così provenire dal Pontormo.
Stefania Vicinelli sa sostituire con disinvoltura al registro del mito quello della favola (Il principe azzurro è verde) o della parabola (Siate…), parafrasando lo stile di Balthus e il suo onirismo.
La scuola di Vaglica ha fatto del Casale Garibaldi una bottega rinascimentale, in cui ciascun artista impara a realizzare
le proprie doti e il maestro non insegna che a tirarle michelangiolescamente fuori di loro.
Francesco Maria Fabrocile 2011

 
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