Cieli, spazi notturni,
costellazioni che hanno nome e poi fattezze e forme di personaggi maschili e
femminili - o viceversa figure umane proiettate su sfondi siderali sono il
repertorio degli ultimi anni di ricerca artistica di Francesco Vaglica. Ma
queste non sono novità tout-court per
lui. La novità è che questo non nuovo repertorio si è ultimamente imposto con
caratteri tali da smettere di essere appunto ‘repertorio’ e da diventare vero e
proprio registro compositivo: discorso estetico autonomo, padrone di un’immensa
quantità di mezzi formali.
Parliamo della pienezza totalizzante di opere come Cassiopea, Nascita di Minerva, Lo
spinaro. Ma a ben vedere, parlare qui di ‘novità’ non è se non rivisitare
mille variegate premesse di un percorso più che ventennale che sempre più si
corona, si matura. Quindi, semplicemente: nessuna ‘novità’. Gli «itinerari
cosmici di ultrafania che solo una ricchissima fantasia può inventare»[1],
itinerari pittorici sostanziati da «miti, intrisi di quiete, [che] dominano il
silenzio e la stasi»[2]
procedono verso «il recupero di memorie individuali e collettive, biologiche e
culturali»[3]:
questo è oggi il lavoro di Vaglica, così come queste erano le parole che
Alessandro Piccinini, fondatore del movimento del Presenteismo, gli dedicava
nel lontano 1993. Una coerenza di ricerca che dura nel tempo, dritta, tenace
come una quercia.
Sin da quei primi anni Novanta, in cui Vaglica aderisce al
Presenteismo, egli porta avanti il proprio
discorso artistico, senza mai cedere di un solo centimetro alle tendenze e alle
contingenze della figurazione: «Aderii al movimento – afferma – perché in quel
periodo era quanto di più sensato si muoveva sulla scena artistica, anche se io
per primo non sono mai stato ben addentro al dibattito teorico sullo spazio e
sul tempo di Alessandro Piccinini e Pierre Carnac». Nonostante la sua modestia
e forse ignorandola, la critica andava intanto riconoscendogli nel Presenteismo
italiano un posto «al di fuori e al di sopra di molti altri giovani artisti»[4], di
«giovane eppure già assai dotato, […] lontano da ogni accademismo»[5],
insomma di «uno dei giovani esponenti più comunicativi e di maggiore
preparazione»[6].
Certo è che, del dibattito artistico del Presenteismo, una è
l’affermazione che filtra nelle maglie della formazione di Vaglica. E’ il
principio del non riconoscersi negli –ismi
delle avanguardie e delle poetiche novecentesche: del restare orgogliosamente
legati al proprio presente storico pur con tutta la sua povertà, e caoticità,
di proposte artistiche, per scavare sotto quella superficialità e riaffiorarne
se stessi, riappropriandosi di tutte le proprie risorse creative appunto come proprie, e non come prestiti, lasciti,
influenze della grande tradizione. Annientare la prospettiva storica,
riappropriarsi di essa dentro la dimensione di un unico eterno presente. Una ricerca severa e solitaria
che Vaglica ha caricato di tutta la responsabilità di evitare le mistificazioni
artistiche correnti. E che nel 1996 il Premio Internazionale La Plejade gli
riconosceva già intrapresa con pieno successo, poiché «in un periodo caratterizzato
da troppe mistificazioni, la sua pittura è testimone di un’autentica arte,
sempre rinnovata, ma anche legata a quei cànoni estetici della creatività
umana, espressi nella storia dell’arte»[7].
Ma il filo rosso di ricerca artistica seguito da Vaglica non
è di quelli che si colgono a prima vista. Lo ha rilevato e spiegato
magistralmente Elise Desserne: «esistono artisti che propongono un dialogo
riconciliatore, cercando una stessa risposta nelle due discipline
[dell’astrazione e della figurazione]. Uno di questi è Francesco Vaglica»[8].
Né figurativo né astratto/informale, ma a cavallo di
entrambi, Vaglica procede dunque in una ricerca artistica che è essenzialmente,
squisitamente questo: riappropriarsi della forma (in tutte le sue codificazioni
classiche, ‘presenteisticamente’ equivalenti) a partire dall’informe,
dall’astratto, dal non-formale. «Da studente, all’Istituto d’Arte – racconta –
mi insegnavano rigorosamente l’astratto. Nessuno spazio per la figurazione e
per la ‘tradizione’, negli anni Settanta. Io, però, autonomamente, ho poi
scelto di riconquistare la forma e la figura senza però disconoscere le basi
della mia formazione». E la sintesi tra le due civiltà artistiche della
figurazione e dell’astratto avviene attraverso tutta la gamma di stilemi
pittorici che fanno essere la pittura di Vaglica se stessa. «Ho conservato, di
quella mia formazione scolastica – continua Vaglica - la sensibilità allo spazio come struttura e
raccordo di forze. Ci sono dei punti nevralgici nelle mie figure che sono
piccoli triangoli attraverso cui io vedo il raccordarsi delle forze in campo».
Quell’«energia latente, onnipresente, concentrata in forme geometriche
vivamente colorate, come una sintesi della gamma di colori usati, spesso
triangolare [mette] in risalto il centro dell’azione»[9] e
attraverso il colore mette in risalto anche, per paradosso, la trama astratta
della figurazione.
Quando i soggetti delle tele sono le costellazioni, per
quanto la figurazione assuma le forme del mito e della narrazione dei nomi e
delle storie (dei Perseo, di Cassiopea) la trama ‘astratta’
dell’opera ci sorprende perché appunta i triangoli di energia in posizioni
indiscutibili: sono le posizioni nel cielo di ogni singola stella della
costellazione rappresentata. Così, l’astrazione si svela essere nientemeno che
l’impalcatura dell’universo: quindi ‘realtà’ a tutti gli effetti. E il cerchio
si chiude.
Uno sforzo teorico ed estetico tanto grande, un’impalacatura
così totale da sorreggere sono compiti che trascendono l’umano e competono al
titano, alla forza primordiale, all’Atlante:
che non a caso è un tema così ricorrente nell’opera di Vaglica. Tutti i suoi
temi mitologici hanno a ben vedere questo mandato espressivo: sono sintesi di
tensioni opposte, di dimensioni lontanissime, e anche di codici artistici
storicamente distanti. Sono spiegazioni complessive di quanto sarebbe lungo e
forse impossibile significare altrimenti, perché ha a che fare con l’universo
tutto intero. Il ricorso al mito, per Vaglica, non è né classicismo, né
maniera, né evasione fuori tempo: è essere
antico come gli antichi dinanzi al cosmo (per gli antichi il racconto
mitico illustra il mondo), ma esserlo nel
presente. Anche nel più minuto e quotidiano presente del nostro vivere: Nascita di Minerva porta il sottotitolo
di after the beard perché ogni uomo
che inizi una giornata è costretto dinanzi allo specchio della rasatura a un
parto faticoso, a concepire quella giornata con la massima intelligenza di cui
è capace, e a realizzarla fino a spaccarsi la testa.
Da un tema e un formato monumentale come questo a temi e
formati minori, come quelli di Direzione
centro o Anabbaglianti, il
discorso non cambia: queste donne notturne, scurite sin sul corpo dalle tenebre
e dalla paura di strade non loro, conservano nello spaesamento un’innocenza
intatta che coincide con la pura bellezza formale. Sono paradigmi di bellezza:
impersonano Venere. La nostra postmodernità violenta distrugge la bellezza e la
prostituisce al profitto: seppur degradata, la bellezza è però ancora viva, ma
soprattutto – sembra dire Vaglica – conserva intatti i suoi paradigmi formali.
In Cassiopea,
opera anch’essa monumentale e coinvolgente specie per la storia che la
protagonista porta con sé (è la regina etiope che entra in competizione con la
propria figlia Andromeda in nome della bellezza), l’attrazione suscitata dalla
figura è affidata non solo alla matericità della sua pelle e ai cromatismi
vellutati e vaporosi degli sfondi, ai suoi occhi penetranti e terribilmente
irresistibili. Ma anche ad un congegno recondito e intimo tutto interno alla
postura della donna, quindi alla struttura della figura e all’architettura
spaziale delle linee di forza. La sua posa sembra un naturale adagiarsi su un
divano: ma ripete fedelmente le linee celesti della costellazione dalla nota
forma di W rovesciata. Nell’incedere delle notti d’estate, la stanga esterna
destra della W scivola lentamente ad aprirsi a compasso mentre la costellazione
vi si inclina. Lo stesso movimento impercettibile anima la figura: è una
divaricazione che si compie ovattata mentre la regina ci inchioda con lo
sguardo, a riscuotere la nostra reazione. Nulla di velleitario: la sua è una
sensualità cosmica, il suo atto ha la naturalità dei moti astronomici e come
tale, per Vaglica, la potenza della sintesi tra astrazione e figurazione.
Bastano pochi segmenti ‘astratti’ anche per sprigionare la più densa emotività.
Questa lezione l’ha fatta propria Domenico Ciociola, il più
lontano, tra i discepoli di Vaglica, dalla figurazione. Perché la scomposizione
della forma in lui non è scomposizione e disgregazione del sentire: Ti voglio ne è la dimostrazione più
palese.
La più fedele alla figurazione del maestro, Luigina
D’Onofrio, assimila da lui sia suggestioni tematiche, evidenti persino nei
titoli (Luci ambigue), che le
impostazioni delle figure in “sotto in su” mantegnati. Ma poi in grande
autonomia riformula atmosfere e volumetrie che sembrano così provenire dal
Pontormo.
Stefania Vicinelli sa sostituire con disinvoltura al
registro del mito quello della favola (Il
principe azzurro è verde) o della parabola (Siate…), parafrasando lo stile di Balthus e il suo onirismo.
La scuola di Vaglica ha fatto del Casale Garibaldi una
bottega rinascimentale, in cui ciascun artista impara a realizzare le proprie
doti e il maestro non insegna che a tirarle michelangiolescamente fuori di
loro.
[1] Alessandro
Piccinini, Il Presenteismo ed il
mito nell’opera di Francesco Vaglica, “Porta Portese Giornale – La voce di
Roma e del Lazio”, Roma, 1 ottobre 1993.
[2] Ibidem.
[3] Ibidem.
[4] Vincenzo
Pelosi, catalogo Mostra Galleria
Intervallo di Roma, 1990.
[5] Barbara
Martusciello, Catalogo mostra
Palazzo Comunale di Rieti 1991.
[6] Sergio
Martone, Domani vernissage di Vaglica, “Il Tempo”, Rieti, 27 giugno
1991.
[7] Motivazione
del Premio Internazionale La Plejade, Montecitorio, Roma, 2-5 maggio 1996.
[8] Elise
Desserne, Le tele di Vaglica tra
azione e silenzio, “Avanti!”, Roma, 28 aprile 2006.
[9] Ibidem.